Archivio della categoria: Salute

17 mercoledì Dic 2014

etichettaturaE’ entrato in vigore lo scorso 13 dicembre la nuova normativa europea sull’etichettatura dei prodotti alimentari. Numerosi i vantaggi per i consumatori: maggiore leggibilità, più chiarezza sugli ingredienti che possono provocare allergie, informazioni obbligatorie sull’origine delle carni e sulla natura specifica dei “grassi vegetali”.

 

Basate sul regolamento europeo 1169/11, le nuove norme sono il frutto di anni di lavoro del Consiglio e del Parlamento europeo, e hanno lo scopo di uniformare la normativa per salvaguardare la salute dei consumatori e, allo stesso tempo, facilitare gli scambi commerciali fra i Paesi dell’Unione. Lo ha ribadito Vytenis Andriukaitis, Commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare: “Le informazioni importanti sul contenuto saranno indicate più chiaramente sulle etichette, aiutando le persone a scegliere in modo informato quali alimenti comprare”. Ecco le principali novità (sintetizzate anche in una infografica):

 

Si migliora la leggibilità: le informazioni dovranno essere ben visibili e la dimensione dei caratteri non inferiore a 1,2 mm.

Sugli alimenti confezionati, gli allergeni dovranno essere evidenziati chiaramente. L’obbligo si estende anche agli alimenti non preconfezionati e a quelli serviti nei bar e nei ristoranti.

Dovrà essere indicata la provenienza delle carni ovine, caprine, suine e avicole (per quelle bovine l’obbligo esiste già).

Sarà riportata la natura specifica di grassi e oli (palma, colza, girasole ecc.) oggi indicati genericamente come “grassi vegetali”.

Sarà indicato chiaramente se un prodotto è decongelato.

Gli alimenti a base di carne o di pesce che sembrano costituiti da un unico pezzo, ma in realtà sono ricavati dall’assemblaggio di diverse parti, dovranno riportare l’indicazione “carne ricomposta” o “pesce ricomposto“.

Tra due anni, esattamente dal 13 dicembre 2016, la tabella con le informazioni nutrizionali, già presente su molti prodotti, sarà obbligatoria per tutti gli alimenti confezionati: dovrà riportare contenuto energetico e contenuto in grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale. La nuova normativa proibisce inoltre l’utilizzo di scritte che potrebbero trarre in inganno il consumatore e nel complesso promette maggiore chiarezza e informazioni più precise.

Fonte: http://www.galileonet.it/2014/12/alimenti-ecco-le-nuove-norme-per-le-etichette/

21 lunedì Lug 2014

 

Rischi maggiori di irritazioni, infezioni respiratorie, sensibilizzazioni allergiche ed effetti sul sistema riproduttivo, ormonale o immunitario. Azioni di sorveglianza. Bambini a rischio. Attenti ai costumi da bagno

di IRMA D’ARIAMobili, vestiti, detersivi e giocattoli: quei veleni che si nascondono in casa

NEI mobili della cameretta, nei detersivi per la casa, nei vestiti e persino nei giocattoli: le sostanze tossiche che possono danneggiare la salute dei nostri figli sono potenzialmente ovunque e sono parte integrante del cosiddetto inquinamento indoor che, secondo le stime dell’Oms, è responsabile di 4,3 milioni di decessi al mondo ogni anno. Nei bambini l’esposizione ad alcuni inquinanti indoor si associa a un maggiore rischio di irritazioni, sintomi respiratori acuti, iper-reattività bronchiale, infezioni respiratorie e sensibilizzazione allergica. Una recente metanalisi di dieci studi che coinvolgono 6387 pazienti ipotizza una relazione positiva tra l’esposizione alla formaldeide e l’asma infantile. «Negli studi selezionati si è visto che i soggetti con i maggiori livelli di esposizione hanno da 3 a 5 volte maggiori probabilità di sviluppare asma», spiega Paolo Regini, pediatra e membro del gruppo di lavoro Ambiente e Salute  dell’Associazione Culturale Pediatri.

INTERATTIVO

Ma la formaldeide preoccupa soprattutto perché l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) l’ha inclusa fra i cancerogeni del gruppo 1, quelli per i quali la relazione fra esposizione e tumori è dimostrata sia sugli animali che sull’uomo. «Individuata inizialmente come fattore di rischio per i tumori del naso e della faringe, questa sostanza è stata in seguito collegata anche alla leucemia mieloide», spiega Pier Mannuccio Mannucci, direttore scientifico della Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano e autore del libro Aria da morire (Dalai Editore).

Ma in casa, soprattutto nei mobili, troviamo molti altri inquinanti tra cui il benzene incluso dalla Iarc fra i cancerogeni del primo gruppo. «Pur essendo uno dei principali inquinanti del traffico, la sua concentrazione negli ambienti chiusi supera in media di quasi due volte quella che si registra all’aperto», dice l’esperto. «In realtà, la stessa Oms riconosce che i livelli rilevati di solito nelle case, attorno ai 10-15 ìg/m3, sono molto bassi e il conseguente incremento del rischio è quindi davvero limitato. La situazione è però diversa se c’è qualcuno che fuma», precisa Mannucci.

Le sostanze tossiche possono “nascondersi” anche nei vestiti che indossano i bambini. Lo dimostrano i dati dello studio «Piccoli mostri nell’armadio» condotto da Greenpeace in cui sono stati testati 82 articoli per bambini di marchi popolari, sportivi e di lusso, acquistati in 25 Paesi. Tutti i marchi testati hanno almeno un prodotto nel quale sono state rilevate sostanze chimiche pericolose tra cui PFOA (acido perfluorottanico) nei costumi da bagno, ftalati e nonilfenoli etossilati in magliette e pantaloni. Si tratta di interferenti endocrini, sostanze che, una volta rilasciate nell’ambiente, possono avere potenzialmente effetti dannosi sul sistema riproduttivo, ormonale o immunitario. Anche i prodotti per le pulizie di casa possono contenere percentuali pericolosamente alte di metalli pesanti, sostanze acide o alcaline che nel tempo possono causare fastidiose reazioni irritative. «L’effetto nocivo di molti detersivi», spiega Adriana Ciuffreda, dermatologa pediatrica di Milano, «si manifesta primariamente a danno di quella che può essere considerata la barriera della nostra pelle: il film idrolipidico. Quando non è più adeguatamente protetta dal suo “scudo” naturale, la pelle diventa più facilmente bersaglio degli agenti patogeni, tra i quali i metalli pesanti come nickel, cobalto e cromo contenuti proprio nei detersivi e in molti detergenti per la casa ». Persino i giocattoli possono essere un veicolo di sostanze potenzialmente tossiche. Anche se dal 1999 l’utilizzo degli ftalati è stato considerevolmente ristretto dall’Unione Europea, secondo il rapporto Rapex (il sistema UE di allerta rapido per i prodotti pericolosi), i rischi maggiori si trovano nel 19% dei casi nei giocattoli. L’elenco fornito dal ministero della Salute è lungo ed include spade di plastica al cromo e bolle di sapone con batteri mesofili

in grado di provocare infezioni. Di recente, AsiaInspection (che effettua controlli della qualità per il mercato asiatico) ha controllato in modo casuale 35 giocattoli di plastica costruiti in Cina e destinati al mercato occidentale. Circa un quarto degli oggetti conteneva pericolosi livelli di ftalati, non conformi alle regolamentazioni. Un giocattolo, in particolare, superava di 130 volte il limite massimo fissato negli Stati Uniti per il Dehp (di-2-etilesilftalato).

http://www.repubblica.it/salute/prevenzione/2014/07/17/news/mobili_detergenti_vestiti_e_giocattoli_quei_veleni_che_si_nascondono_in_casa_di_irma_daria-91807679/?ref=search

21 mercoledì Mag 2014

E’ importante scegliere obiettivi commisurati ai nostri valori, mete che rappresentino qualcosa di importante e significativo per la nostra identità.  Per accedere in modo completo alle nostre risorse, per resistere alle eventuali “delusioni” senza rinunciare ai propri “sogni”, bisogna essere prima di tutto convinti della validità delle proprie scelte, anche dal punto di vista etico. Solo così si può pensare di perseverare a dispetto di eventuali difficoltà iniziali. Ma anche tutto ciò può non essere sufficiente. In effetti molti percorsi di crescita personali e lavorativi vengono “sabotati” da un atteggiamento inconsapevolmente polemico o problematico. Con l’atteggiamento giusto qualsiasi imprevisto può diventare un’occasione di crescita. Con l’atteggiamento sbagliato, viceversa, si può trasformare qualsiasi evento in un problema. L’atteggiamento sbagliato nasce dall’avere delle aspettative rigide, dal pretendere che gli altri si comportino sempre come vorremmo, dall’esigere che le cose vadano sempre a modo nostro. Nel suo ultimo libro “PNL e Libertà”, Richard Bandler, spiega come gli atteggiamenti “acidi” nei confronti della vita provochino un circolo vizioso anche a livello chimico-cerebrale. La nostra mente, i nostri chiodi fissi negativi, influenzano la chimica cerebrale che a sua volta influenza lo stato d’animo con il quale affrontiamo ogni evento. Così, per dirla con le parole di Bandler: “Ci ritroviamo ad attivare processi mentali e comportamentali distruttivi in automatico e questi a loro volto ci inducono stati d’animo negativi”. Insomma un circolo vizioso che, se si vuole vivere attivamente, ma in pace e serenità, conviene assolutamente interrompere.

 Per avere l’atteggiamento giusto ci vuole una mente libera da “zavorre”

Viviamo in una cultura che a partire dalla scuola elementare ci educa a doverci meritare qualsiasi cosa. Probabilmente il valore sotteso a quest’impostazione ha delle sue ragioni educative, ma rischia di trascinare con sé un concetto pericoloso: che per essere felici dobbiamo raggiungere degli obiettivi. Gli obiettivi raggiunti ci potranno rendere più felici, se lo siamo già. Altrimenti rappresenteranno una chimera irraggiungibile. Per ogni obiettivo raggiunto infatti, ne nasceranno altri da raggiungere, in una corsa nevrotica verso il nulla. Se vogliamo vivere in uno stato d’animo produttivo e sereno, lo possiamo fare da subito, iniziando ad apprezzare quello che funziona della nostra vita. Per amarci e stare bene non dobbiamo essere all’altezza di niente e di nessuno. Si tratta solo di adottare una nuova abitudine mentale, quella di far diventare ogni situazione un’occasione di crescita, evitando di rivivere mentalmente tutto quello che ci ha fatto soffrire in passato.

In questo senso, molto spesso, una fonte di grande sofferenza, assolutamente inutile,  è il rivivere mentalmente gli eventi negativi vissuti in passato. La vita reale è il presente. Nel “qui e ora” quello che conta è cosa si vuole fare della propria esistenza e che piani si hanno per il futuro. Per questo, la prima cosa da fare, se si è ossessionati da alcuni episodi negativi, è liberarsi di quella “spazzatura”. La mente è la nostra dimora più intima. Sta a noi il farla diventare il nostro tempio o il nostro inferno.

Quando riviviamo degli eventi negativi del passato, come litigi, scelte sbagliate o sensi di colpa, lo facciamo proponendoci delle immagini o dei veri e propri film di quello che abbiamo vissuto. A volte poi il film è accompagnato da una voce fuori campo, il nostro commento mentale alla situazione, un dialogo interiore che però sentiamo come fosse una voce reale. Se il ricordo è negativo sarà facile che anche il nostro commento sia acido, arrabbiato o pessimista.

Dentro la nostra mente

Se si tende a rimuginare eventi che ci riportano in uno stato di sofferenza, si produrranno quindi, a livello mentale, sia delle immagini che un dialogo interiore. E’ proprio su questi due aspetti che dovremo lavorare inizialmente. In un suo libro precedente, intitolato “Usare il cervello per cambiare”, Bandler spiega che le nostre emozioni, sono sorprendentemente connesse ai valori cromatici ed alla luminosità delle immagini che ci rappresentiamo mentalmente. Così delle immagini luminose e a colori, ci provocheranno una reazione emotiva più intensa rispetto ad altre in bianco e nero e poco nitide. Ecco un passaggio del libro, che data l’importanza riportiamo letteralmente: “In questo preciso momento osservate in che modo vi raffigurate un evento futuro gradevole e quindi rendete più luminosa quella stessa immagine e osservate come le vostre sensazioni mutano. Quando rendete più luminosa quell’immagine non vi sembra di attendere quell’evento con desiderio ancora maggiore? Adesso immaginate un ricordo gradevole del vostro passato e rendete i colori più forti e più intensi, osservate le vostre sensazioni, non vi sembrano più intense? Ora cercate di vedere quella stessa immagine in bianco e nero. In genere quando l’immagine perde il proprio colore la reazione si indebolisce”.  

Una volte consapevoli della relazione tra la percezione dei valori cromatici e di luminosità delle immagini mentali e le nostre emozioni, possiamo intervenire per fare pulizia.

 Come trattare le immagini (che ci insidiano)

Gli esercizi che proponiamo di seguito hanno un’unica finalità, quella di dissociarvi dai vostri pensieri negativi ricorrenti. In verità l’evento che vi infastidisce ha già fatto i suoi danni a suo tempo. Quello che ora vi tormenta non è quindi l’evento in sè, ma la sua riproduzione nella vostra mente.

Se il vostro pensiero negativo è rappresentato da un’immagine:

–       Concentratevi sull’immagine che vi tormenta;

–       Fatela diventare una foto in bianco e nero;

–       Sfuocatela progressivamente;

–       Immaginatela sempre più sbiadita fino a farla diventare bianca;

Come trattare il dialogo interiore (che ci deprime)

–       Prestate attenzione a quello che vi dite attraverso i pensieri. Sentitene il tono e le

intenzioni;

–       Divertitevi a ripetere lo stesso testo esagerando la seriosità della vostra voce fino a

      farla diventare grottesca;

–       Adesso riproducete il dialogo accelerandolo e facendolo diventare ridicolo come la

      voce di un cartone animato;

–       Ora fate il contrario, rallentate progressivamente la velocità della voce, fino a 

distorcerla come provenisse da un vecchio registratore con le batterie scariche;

Fatelo fino a quando percepirete un’ondata “nuova” di benessere, che corrisponderà all’idea di aver trattato il pensiero ricorrente per quello che è: un “file” inutile, un disco rotto che non servendo a niente deve solo finire nel cestino.

Come trattare i film mentali (dolorosi)

Se il vostro  chiodo fisso ha invece la forma di un film, che riproduce per intero, o per una parte, il vostro evento negativo:

–       Immaginatevi di essere seduti in un cinema e di assistere alla proiezione del film 

      sul vostro chiodo fisso;

–       Fatelo diventare un film in bianco e nero;

–       Adesso concentratevi sulla sequenza delle scene che formano il vostro film;

–       Ora proiettate il film all’incontrario;

–       Infine divertitevi a riprodurlo in avanti e indietro come se foste al montaggio. Cambiatene anche la velocità di riproduzione, fino a farlo diventare veloce come una comica;

Fatelo fino a quando avrete maturato il giusto distacco dal film, potendolo quindi trattare per quello che è: un video che la vostra mente continua a riprodurre, solo per abitudine. Nulla più.

Buttate le vecchie “cianfrusaglie” bisogna “riarredare” la nostra mente

Fatta pulizia si possono innescare una serie di piacevoli contromisure, per iniziare a creare nuove abitudine, più funzionali. Innanzitutto potrete accedere alla libreria dei ricordi chiedendo alla vostra mente di riprodurre tutti i migliori eventi della vostra vita. Un bacio, una sensazione di grande soddisfazione, un’immagine di voi in un momento in cui vi sentivate particolarmente rilassati e pieni di energia, una volta in cui avete fatto ridere intensamente qualcuno. Pescate ovunque. Potranno essere anche momenti lontani, di quando eravate bambini, l’importante è che siano ricordi legati a emozioni intensamente piacevoli.

Tutto questo, se volete innescare un processo di “inspiegabile” buon umore, dovrà far parte di una disciplina nuova che la mente imparerà presto: riprodurre nella lista dei “preferiti” solo eventi piacevoli. Chiaramente è benvenuta qualsiasi cosa, piccola o grande, sapete possa funzionare nella vostra quotidianità: letture interessanti, musica stimolante, un programma televisivo che vi piace, trascorrere del tempo con persone che vi fanno stare bene e quando è il caso, delle sane risate.

 Quindi poi cosa succede?

 Quando si educa la mente a proporre solo fantasie piacevoli, si entra in una chimica cerebrale di positività, in un inspiegabile stato di buon umore che diventa il filtro percettivo di tutto quello che ci succede, rendendoci tutto più funzionale e gestibile. Perché non dimentichiamocelo mai: con l’atteggiamento giusto qualsiasi ostacolo è superabile, anzi può sempre diventare un’occasione per “rilanciare”, con quello sbagliato ogni cosa, anche la migliore, può diventare un problema.

16 venerdì Mag 2014

In una semplificazione estrema, esistono due modalità di approccio alla realtà e a noi stessi.

La prima è quella di scovare in ogni situazione gli aspetti che ci piacciono e che ci fanno sentire bene, concentrandosi prevalentemente su questi. La seconda è quella invece di concentrarsi criticamente sui “difetti” o sugli aspetti che non ci piacciono, della realtà, degli altri e di noi stessi.

La critica di per sé, ovviamente, non è una cosa negativa, ma molto spesso tende a determinare un atteggiamento polemico che finisce per prevalere su qualsiasi aspetto razionale, incidendo soprattutto sull’umore di chi critica. Nella vita difficilmente le situazioni sono solo positive e piacevoli. Un museo che espone delle belle opere d’arte può avere l’aria condizionata che non funziona. In un ristorante dove si mangia bene può capitare di imbattersi in un cameriere scostante e così via. Rispetto a queste situazioni imperfette,  sempre semplificando, alcuni, riescono a godersela nonostante tutto, mentre altri, magari solo per un piccolo dettaglio negativo, si rovinano l’esperienza in toto. Libertà di scelta, si potrebbe commentare. Sta di fatto che mentre i primi, tendenzialmente, si godono la vita, gli altri sono eternamente impegnati a lamentarsi o a condurre battaglie in ogni direzione. Non vogliamo con questo suggerire di adottare un atteggiamento di superficiale menefreghismo, rispetto a quello che riteniamo contrario ai nostri principi. In certe circostanze è opportuno prendere delle posizioni e, perché no, se è il caso, condurre anche delle battaglie in nome di quello in cui si crede. Il punto non è questo, bensì la degenerazione patologica di questo atteggiamento: quando ci si perde il bello della vita, perché sistematicamente impegnati nella critica di qualcosa. Molto spesso poi, chi ha la tendenza a polemizzare su tutto, difficilmente è in grado di concentrarsi in modo serio ed efficace su qualche specifica battaglia.

Allo stesso modo, nelle relazioni, alcune persone hanno la tendenza a trovare dei punti di incontro con gli altri, come interessi e passioni in comune o idee condivise, mentre altre tendono a concentrarsi solo sui difetti altrui, notando più le differenze che i punti in comune. Eppure, con ogni essere umano, abbiamo molti più punti in comune che differenze. Abbiamo lo stesso sistema neuroendocrino, le stesse necessità biologiche. Abbiamo tutti l’esigenza di essere amati, stimati e apprezzati per le nostre capacità. Di appartenere a qualcosa, di avere un nucleo affettivo di riferimento e molto altro ancora. E anche se le persone che conosciamo dimostrano di essere in qualche aspetto “diverse” da noi, forse comunque, potremmo imparare qualcosa di nuovo e venire a conoscenza di nuovi punti di vista  o di aspetti della realtà mai considerati. E allora alla fine possiamo dire che è solo una questione di disposizione d’animo. Alla fine si tratta di abbracciare una filosofia o un’altra. Si tratta di decidere se si vuole passare la vita ad amare o a criticare. Certamente stiamo semplificando. Ovviamente si può anche criticare in modo costruttivo. Ma bisogna sapere come farlo, perché statisticamente parlando è molto più probabile che quando si critica, lo si faccia con atteggiamenti accusatori e irritanti, mettendosi su un piedestallo e sentenziando. Avete mai provato a chiedere in modo inacidito a una persona di rispettare una regola di qualsiasi tipo che non ha considerato? Se vi è capitato, avrete notato che la maggior parte delle volte, in quei casi, le cose vanno di male in peggio.

COMUNICARE CON GLI ALTRI IN MODO AFFETTUOSAMENTE EFFICACE

Vivere secondo la strategia dell’amore non significa solo cercare di apprezzare il bello della vita e delle persone, ma anche imparare a comunicare le critiche e le situazioni che ci irritano, o che ci fanno in qualche modo soffrire, in modo “affettuoso” e quindi efficace. Altrimenti continueremo solo a farci del sangue amaro per nulla. Non è facile, nè immediato. Soprattutto se per una vita ci si è comportati in modo diametralmente opposto. Ma come ogni cosa si può imparare a farlo, ecco come.

Per prima cosa, se è possibile, dobbiamo evitare di comunicare la nostra critica quando sentiamo di essere arrabbiati e irritati: rischieremmo quasi inevitabilmente di trasformare la conversazione in una rissa verbale. Una volta riacquistato un umore decente, possiamo entrare in comunicazione con la persona che vogliamo criticare, ma tenendo conto di alcune regole fondamentali. Prima di manifestare la nostra critica sarà utile farci chiarezza chiedendoci che cosa vogliamo ottenere dalla persona che stiamo per criticare. Se non lo sappiamo con chiarezza, sarà facile che la conversazione scivoli pericolosamente in una “lezione” o in una “predica”. Il che porterebbe inevitabilmente il nostro interlocutore a difendersi o, peggio ancora, ad attaccarci a sua volta con critiche nei nostri confronti. L’anticamera della rissa verbale.

Quindi dobbiamo avere chiaro cosa vogliamo ottenere per noi, non per la persona che vogliamo criticare. In genere le persone rifiutano a priori di seguire i consigli fatti in “nome del loro bene”, tendendo in quei casi a vederci come presuntuosi e invadenti. Quindi il segreto sta nel parlare esclusivamente di noi stessi. La critica dovrà assumere la forma di una richiesta, senza che questa significhi un’accusa di alcun tipo. Vogliamo essere rispettati, o considerati per quello che pensiamo di essere o valere? Allora ci converrà chiederlo, piuttosto che offendere o accusare chi ci ha mancato di rispetto o non ci ha preso nella dovuta considerazione.

Facciamo un esempio. Immaginiamo la classica situazione in cui ci siamo rimasti male perché il nostro capo non ha considerato una nostra richiesta, o non ci ha “premiato” per i nostri meriti. Potrebbe averlo fatto per diversi motivi, ma l’analizzarli porterebbe solo nella direzione sbagliata. Ha importanza invece, se ci siamo rimasti male, capire che cosa vorremmo ottenere in future situazioni analoghe. Quindi, piuttosto che spiegargli dove ha sbagliato, cosa da non fare mai, ci converrà parlargli di come ci siamo sentiti in quel frangente e di cosa invece gradiremmo venisse considerato in futuro.

Basterà iniziare con un semplice “Ci sono rimasto/a male perché….”, oppure, “Avrei gradito che….” o ancora “ In futuro apprezzerei molto se …”.

Immaginiamo un’altra situazione, in cui scopriamo che il nostro partner ci ha detto una bugia.

Se riteniamo che il peccato sia veniale e abbiamo l’intenzione, a patto di un chiarimento, di salvare  il rapporto, faremo bene ad iniziare la nostra conversazione con un: “Mi sono sentita/o  tradita/o”, oppure, “Ci sono rimasta/o male, perché…”.

Insomma, se non vogliamo portare la conversazione sul piano dell’inutile battibecco, ci converrà parlare unicamente di come ci siamo rimasti male noi e di cosa vorremmo invece per il futuro. Solo questa modalità potrà, eventualmente, portare a un chiarimento e motivare il nostro partner a mettersi in discussione. Viceversa, se lo accuseremo o peggio ancora lo offenderemo, continueremo ad ottenere solo delle inutili e faticose risse verbali.

In questo caso dovremo ritornare alla domanda iniziale: “Cosa volevo ottenere? “. Se volevamo un chiarimento e abbiamo invece ottenuto un battibecco, molto probabilmente, non siamo riusciti a parlare solo di noi stessi e delle nostre richieste.

19 mercoledì Giu 2013

ARPS.jpg bassaI nostri rapporti, volendo, possono essere osservati e valutati alla stregua di transazioni. Uno dei modelli analitici di riferimento, in questo senso, è una disciplina, nata alla fine degli anni cinquanta negli USA, dal nome emblematico: “Analisi Transazionale”. Da questo punto di vista, ogni dialogo, ad ogni livello, può essere considerato come una transazione che va a buon fine, definita nel linguaggio dell’Analisi Transazionale, “transazione complementare”, o una transazione conflittuale, definita “transazione incrociata”. Le “transazioni complementari” sono quelle che non ci creano problemi e che ci fanno vivere delle piacevoli sensazioni di armonia e benessere. Sono quelle nelle quali otteniamo ciò che ci aspettavamo. Quelle in cui il nostro interlocutore rispetta le regole di ruolo del “gioco”. Viceversa le “transazioni incrociate” sono quelle nelle quali il nostro interlocutore ci sorprende interpretando un ruolo che ci irrita o che non riteniamo consono alla relazione. Secondo Eric Berne, il fondatore dell’Analisi Transazionale, i ruoli che possiamo essenzialmente interpretare nella relazione con gli altri, sono tre: il genitore, il bambino e l’adulto.
I tre ruoli fondamentali che proponiamo nelle relazioni: genitore, bambino , adulto
Genitore, bambino e adulto convivono in ognuno di noi ed emergono alternativamente a seconda delle circostanze e delle esigenze.

IL GENITORE
Il ruolo del genitore rappresenta, in linea di massima, il mondo del dovere e delle regole. Può avere due valenze, normativa e affettiva. La parte normativa, può esprimersi in modo solare, offrendo indicazioni, insegnamenti e “sani” valori, ma anche trascendere negativamente, criticando sistematicamente, imponendo, rimproverando o anche punendo.
Quella affettiva, a sua volta, può esprimersi in modalità positiva, prendendosi cura, sostenendo e incoraggiando, ma anche negativamente, diventando iperprotettiva e invadente.

IL BAMBINO
Il ruolo del bambino circoscrive la nostra parte emotiva, quella più spontanea, quella legata al piacere, ma anche alla paura. La nostra parte bambina può essere “adattata” o “ribelle”. E’ adattata positivamente quando segue, con piacere, le regole del genitore normativo interiore. Negativamente invece, quando accetta alcune situazioni solo per piacere agli altri, o per un secondo fine. In quest’ultimo caso, se il bambino non raggiunge il suo scopo, può diventare lamentoso interpretando il ruolo della vittima. La parte ribelle a sua volta, è positiva quando rappresenta spirito di intraprendenza, coraggio di battere nuove strade, capacità di reagire alle avversità, negativa, quando lo è in modo sistematico rispetto ad ogni cosa.

L’ADULTO
La nostra parte adulta è quella normalmente definita “razionale”. E’ la nostra mente analitica, che analizza e pondera le circostanze, con un approccio “intellettuale” piuttosto che emotivo.
E’ la parte che non drammatizza, bensì analizza rispetto ai dati che ha a disposizione per trovare delle soluzioni.

IL MONDO DELLE TRANSAZIONI

Le transazioni complementari

Il gioco delle transazioni è complesso quanto divertente da analizzare. Se in ognuno di noi convivono tre personaggi, ciò significa che in qualsiasi relazione a due, per esempio, possono entrare in gioco sei personalità e in modo trasversale.

Ma per capire il meccanismo è necessario fare un passo indietro e partire dalle transazioni complementari quelle più semplici, che ci fanno vivere sereni.
Nelle transazioni di qualsiasi tipo viene, in modo non dichiarato, messo in atto un gioco, utilizzato nelle scuole di teatro in modo esplicito: il gioco del “Chi”, ovvero “Chi voglio che tu sia”. Quando ci rivolgiamo a una persona, in verità, ci aspettiamo di accedere, a seconda delle circostanze, a una parte precisa della sua personalità. A volte vogliamo che l’altro ci risponda con “l’adulto”, quando cerchiamo una risposta ponderata e razionale, altre con “il bambino”, quando abbiamo voglia di spensieratezza, altre ancora con il genitore, se cerchiamo, per esempio, conforto. Se troviamo corrispondenza rispetto alle nostre aspettative la transazione risulta complementare.

Facciamo un esempio:

La moglie dice al marito “ Non so se riuscirò a farcela”
E’ nel bambino e sta cercando una risposta dal genitore affettivo.

Il marito risponde “Ma certo amore che ce la farai, non ho dubbi”.
Risponde con il genitore affettivo. Dandole il conforto che cercava.

La transazione si è conclusa positivamente con soddisfazione di entrambi. E’ una transazione complementare.

Le transazioni incrociate

Ma non sempre le transazioni si chiudono favorevolmente. A volte le nostre aspettative di ruolo vengono disattese con delle “transazioni incrociate”.
Vediamone un paio di esempi:

Il marito chiede alla moglie: “ Hai visto le mie chiavi?”
E’ nell’adulto e vorrebbe un risposta dall’adulto

La moglie risponde: “Ma possibile che non sei mai in grado di ricordarti dove le hai messe?”
Risponde con il genitore normativo incrociando la transazione.

Il capo chiede alla segretaria : “Non trovo più la pratica su cui abbiamo lavorato ieri. Per caso l’ha spostata da qualche parte?
E’ nell’adulto e vorrebbe un risposta dall’adulto

La segretaria risponde: “Ma perché deve sempre dare la colpa a me delle cose che non trova?
Risponde col bambino lamentoso entrando nel ruolo della vittima.
Anche in questo caso siamo di fronte a una “transazione incrociata”. Il capo si sarebbe aspettato una risposta dalla parte adulta della segretaria, e invece riceve una lamentela che potrebbe innescare un meccanismo polemico a escalation.

In altre parole ogni volta che incrociamo una transazione, non abbiamo interpretato correttamente la richiesta di ruolo del nostro interlocutore. Oppure abbiamo interpretato correttamente il ruolo che l’altro ci vorrebbe affibbiare, ma non intendiamo accettarlo.
Nel primo caso, possiamo parlare di una mancanza di attenzione e di ascolto delle necessità altrui, nel secondo invece di un’efficace strategia difensiva. Perché in effetti non sempre è sbagliato incrociare la transazioni.

Quando è utile “incrociare le transazioni”

In molte situazioni ci potrà accadere di trovarci a contatto con delle persone che si arrogano arbitrariamente il diritto di farci “l’interrogatorio”, obbligandoci a interpretare il ruolo di chi deve fornire giustificazioni. In quel caso, se riteniamo che la persona non abbia alcun ruolo e titolo per pretendere da noi spiegazioni di qualsiasi tipo, non dovremo entrare nel gioco. Il fornire infatti delle spiegazioni, ci proietterebbe immediatamente in una posizione di svantaggio, quasi impossibile da recuperare. Ogni risposta, sarebbe infatti motivo per il nostro interlocutore di nuove domande, con l’unico scopo di metterci alle corde. La soluzione in questo caso è incrociare fin dall’inizio la transazione rispondendo all’attacco in modo speculare e quindi rovesciando i ruoli.

Facciamo un esempio:

Utilizzo un dialogo che mi è stato realmente riportato, avvenuto tra 2 soci di una società immobiliare.

Socio A: Vorrei capire perché ti ostini a volerti presentare senza cravatta.
Il gioco impostato dal socio A è del tipo genitore-bambino. Se il socio B rispondesse, rimanendo nel merito, accetterebbe il ruolo del “bambino” che si deve giustificare e si ritroverebbe ad affrontare, in ogni caso, un percorso in salita.

Socio B: Mi spieghi perché ritieni così importante l’indossare la cravatta?
Il socio B incrocia la transazione non rispondendo col bambino, come vorrebbe il socio A, ma col genitore. In questo modo ha attuato un rovesciamento di ruolo impostando un nuovo gioco, nel quale il socio A diventa il bambino che deve giustificare le sue convinzioni. Ora il percorso in salita è per il socio A.

Probabilmente a molti di voi saranno venuti in mente tanti dialoghi, telefonici e non, avvenuti con venditori che avevano messo in atto un gioco genitore-bambino.
Da adesso in poi ricordatevi che se non volete acquistare qualcosa e vi scoccia dover dare spiegazioni, non siete mai tenuti a fornire giustificazioni di alcun tipo. Di fronte ai più ostinati potrete sempre ricorrere a un rovesciamento di ruoli con la fatidica frase:” Perché ritiene che dovrei giustificarle le mie decisioni?” Di solito il venditore a questo punto batte in ritirata, ma nel caso fosse veramente caparbio, il consiglio è di limitarvi a un semplice “Le ho già risposto”. A questo punto è veramente difficile, per non dire impossibile, che la discussione possa procedere.

24 mercoledì Apr 2013

successoIl mese scorso abbiamo descritto i meccanismi con i quali solitamente ci inganniamo, distorcendo il senso degli eventi o attribuendo significati arbitrari ad alcune situazioni che viviamo.
In particolare abbiamo approfondito le dinamiche con le quali, a volte, sabotiamo i nostri sogni e le nostre aspirazioni, condannandoci a vivere dimensioni lavorative o private che non ci soddisfano.
In sintesi abbiamo capito che possiamo osare sempre molto di più’, rispetto ai limiti che ci poniamo, a patto di non lasciarci offendere dai piccoli “incidenti sul percorso” o dalle risposte frustranti, che inevitabilmente lastricano qualsiasi percorso di realizzazione personale.
Anthony Robbins, uno dei “guru” americani della formazione, nel suo primo libro, riporta in sintesi la carriera di Abraham Lincoln, uno dei più importanti e noti presidenti degli Stati Uniti, evidenziandone una serie di insuccessi – fallimento negli affari personali, bocciatura alle elezioni, al Congresso, al Senato, persino nella corsa per la Vicepresidenza – difficilmente attribuibili all’uomo che in seguito sarebbe divenuto il 16° Presidente americano. In effetti la maggior parte degli uomini che hanno raggiunto la posizione a cui aspiravano, in qualsiasi campo, sono persone che hanno avuto la perseveranza di andare avanti a dispetto di qualsiasi parziale insuccesso. Sono individui che hanno considerato gli incidenti sul percorso, non come fallimenti, ma semplicemente come dei risultati, certo non voluti, ma comunque utili per “raddrizzare il tiro”. La differenza sta tutta qui, ma non è poco.

Come sapere quando ne vale la pena

Per quali motivi, quindi, alcuni hanno la forza di perseverare e altri desistono identificandosi nei fallimenti?
Robert Dilts, uno dei maggiori esponenti della scuola americana NLP (Programmazione Neurolinguistica), ha teorizzato, rielaborando la concezione dei livelli logici di un grandissimo antropologo, Gregory Bateson, che l’essere umano, per essere “ felicemente produttivo” debba necessariamente vivere in armonia con le proprie scelte. Non vivere quindi conflitti tra valori, convinzioni e comportamenti. Tornando quindi alla nostra domanda, possiamo dire che gli individui che non “mollano”, ci riescono non perché sono più dotati, ma, in parte, perché hanno scelto meglio i propri obiettivi. In altre parole, le persone che “ce la fanno” sono animate dalla passione, dal sogno, da una “visione” vissuta senza contraddizioni. Lo sono al punto da riuscire a trasformare ogni piccolo insuccesso, in una preziosa lezione: informazioni per fare meglio la volta dopo.
E’ la “fortuna” che capita, per esempio, a chi vive profondamente una vocazione.
Come fare, in sintesi, a capire se saremo disposti a mettere in campo tutte le risorse che abbiamo per un progetto? Un grande contributo può venire dal porci delle domande che ci aiutino ad individuare la consistenza delle nostre motivazioni.

Qual è per me il significato del raggiungere quel determinato obbiettivo?
Che tipo di persona diventerò una volta che l’avrò realizzato?
Perché è importante che arrivi a realizzare quel determinato “sogno”?
Domande fondamentali, per capire se saremo disposti a “soffrire” per arrivare alla meta, per sapere se stiamo “giocando” con la fantasia o intendiamo fare sul serio.
Appurato tutto ciò potremo partire per la nostra avventura, ma non prima di aver pensato a un piano d’azione.

Però poi ci vuole una strategia

Per raggiungere qualsiasi meta è sempre necessario individuare una serie di azioni utili.
Prima di tutto, se si tratta di un obiettivo complesso, dovremo pensare a come dividere il “boccone enorme” in diversi bocconcini. La montagna, per usare un’altra metafora, dovrà essere scalata a tappe, cercando, nel limite del possibile, di commisurare gli obiettivi intermedi alla nostra preparazione. Per frazionare il nostro macro-obiettivo in diversi step, avremo però bisogno di conoscere il contesto in cui intendiamo muoverci. Abbiamo abbastanza informazioni? Se non ne abbiamo la risorsa principale a cui attingere è la capacità di indagare, di chiedere a chiunque supponiamo ne possa sapere più di noi. Altre indicazioni potranno venire da un modello, o più, di riferimento, rispetto al settore individuato. Se vogliamo diventare dei grandi architetti, scrittori, campioni sportivi o qualsiasi altra cosa, sarà utile avere dei “miti” da imitare. Cosa hanno fatto loro?
Biografie, interviste e social network potranno essere d’aiuto per avere qualsiasi tipo di spunto, di traccia utile. Solo allora, quando avremo una visione sufficientemente chiara di come convenga “muoversi” in quello specifico ambito, potremo strutturare una strategia adeguata. Il consiglio in questi casi è quello, date le domande riportate di seguito, di scriversi le risposte, che però dovranno sempre godere del beneficio di inventario.

Nel vivo dell’azione

Ho le competenze, i titoli oggettivamente necessari, in sintesi “le carte in regola” per raggiungere il primo obiettivo e poi gli altri?
Se rispetto a questa domanda scopro di non avere le competenze o i requisiti minimi indispensabili, il mio primo compito sarà dotarmene

In che contesto-ambiente potrò raggiungere il primo obiettivo che mi sono prefisso e poi man mano, gli altri?
Per rispondere a questa domanda sarà molto utile cercare di dettagliare il più possibile la situazione come fosse un film.

Potrò farcela da solo o avrò bisogno di coinvolgere altre persone?
Anche in questo caso converrà dettagliare il più possibile la situazione, definendo, se possibile, chi esattamente dovrebbe collaborare con noi e in che modo.

Quali indicatori mi faranno capire di aver raggiunto ogni obiettivo?
Come per ogni test, avrò bisogno di decidere quali “segnali” mi confermeranno di aver raggiunto la prima tappa e di essere pronto per lo step successivo.

Quali indicatori mi faranno capire se ogni micro-obiettivo è effettivamente utile al raggiungimento della meta finale?
Quest’ultima domanda merita un commento aggiuntivo, in quanto rappresentativa dello spirito critico e flessibile che ogni scuola di comunicazione suggerisce. La flessibilità e la capacità di rimanere critici in corso d’opera sono fondamentali per una piena realizzazione. Confrontare ogni obiettivo intermedio con la meta finale è, non solo funzionale all’ottimizzazione delle proprie risorse, ma anche utilissimo per capire il senso generale di quello che stiamo facendo. Paradossalmente, una volta raggiunta la meta, potremmo scoprire che non ci interessa più o che non ci realizza nel profondo come pensavamo e ambire a qualcosa di nuovo. Ma come avremmo fatto, in quel caso, a scoprirlo se non avessimo fatto tutto il percorso?
Un’ultima precisazione per tutti coloro che trovano difficoltà a individuare una vocazione: prima di metterci in azione per il raggiungimento di una meta è auspicabile essere sicuri che sia in linea con la nostra identità e i nostri valori, ma piuttosto che rimanere nell’immobilismo -come l’asino di Buridano, che non sapendo se scegliere la paglia o il fieno morì di fame – converrà comunque muoversi per un obiettivo, diciamo quello che ci sembra, al momento, il meno peggio. Poi strada facendo le nubi potrebbero diradarsi lasciando emergere piacevoli sorprese.

Articolo di Giulio Santuz

25 lunedì Mar 2013

mongolfiera2I nostri comportamenti, le nostre attitudini, decisioni, relazioni interpersonali, dipendono in buona parte da come comunichiamo con noi stessi. Lo facciamo in continuazione, sia a livello superficiale, rimuginando parole altrui o che vorremmo aver detto, sia a livello più profondo,  dando delle interpretazioni alle nostre esperienze. In sintesi, attraverso l’educazione ricevuta, le informazioni elaborate dalle relazioni interpersonali, le riflessioni sui nostri successi o fallimenti e una serie di altre informazioni vagliate come attendibili, ci formiamo  un’idea sulla realtà e sul come “utilizzarla” al meglio. Un modello di riferimento del quale molto spesso conosciamo ben poco.  Una mappa, che non solo contiene le “istruzioni per l’uso” del mondo, ma anche valutazioni condizionanti su noi stessi e sulle nostre capacità/possibilità  di realizzarci. E visto che da questa rappresentazione, comprensiva di convinzioni sul mondo, sugli altri e sulle nostre possibilità di “farcela”, dipende l’esito globale della nostra vita, dovrebbe essere prioritario per ognuno, valutarne veridicità e funzionalità. Insomma, sarebbe auspicabile non solo capire quali convinzioni animano i nostri comportamenti e decisioni, ma anche sottoporre le stesse a una verifica, per capire se le nostre scelte comportamentali appoggiano su basi sicure o sono dettate da deduzioni arbitrarie, o percezioni sfalsate dall’emotività.

Quante volte vediamo amici che vivono una vita frustrata, perché vittime di convinzioni limitanti. Quante volte abbiamo assistito al rompersi di rapporti, per reazioni simmetriche causate da cose non dette o non spiegate o per supposizioni non verificate. Quante vote abbiamo visto amici che rinunciavano a sogni coltivati per una vita, solo perché offesi da un’aspettativa delusa. In verità dietro a comportamenti, pensieri, decisioni che fanno soffrire, ci sono molto spesso modalità comunicative distorte. Tutto questo è molto facile notarlo negli altri, molto più difficile in noi stessi. In effetti nessuno ci insegna a dubitare delle nostre percezioni. Nessuno ci insegna come capire quando il difetto, come si suole dire, sta nel manico. E allora come uscire dal labirinto?

Uno psicologo americano tra i più noti di sempre, Milton Erickson, diventato poi un punto di riferimento per moltissime discipline che studiano la comunicazione, elaborò, negli anni ’60, un approccio strategico – in larga parte mutuato dalla maieutica socratica – per aiutare i pazienti a uscire dalle proprie “trappole mentali”. La metodica, diventata ormai una base condivisa dagli “esperti” di psicologia e comunicazione, consiste semplicemente nel porre a se stessi o ad altri, delle domande specifiche. Quesiti che possano riportare alcune convinzioni, credute verità assolute, sul piano delle opinioni o congetture  personali, aprendo la strada a nuove interpretazioni degli eventi.

Domande e immaginazione: una “ricetta” pratica e veloce per uscire dalle proprie gabbie mentali

Quando ci “blocchiamo”, deprimiamo, offendiamo, o semplicemente ci limitiamo nel vedere le possibilità di scelta che avremmo a disposizione, senza rendercene conto, obbediamo a delle convinzioni limitanti  che ci pilotano in automatico. Il primo passo, quindi, da fare in questi casi, è  tentare di scoprire se, rispetto a una determinata situazione vissuta come problematica,  non siamo noi a creare il problema. In effetti quando si entra in uno stato d’animo vittimistico, depressivo o rinunciatario, non solo non si è consapevoli di averlo scelto tra tante opzioni a disposizione, ma si tende anche a pensare che quella sia l’unica reazione possibile. La prima domanda, che potrà quindi scardinare qualsiasi “impianto” autolesionistico di questo tipo, dovrà proprio riguardare la nostra reazione o la motivazione che, per noi, “giustifica” quella reazione. Per resistere alla “prova verità”, la nostra reazione dovrà essere universalmente (ovvero per tutti) e necessariamente (ovvero in ogni caso) l’unica possibile. Facciamo un esempio, prima prendendo in esame una situazione nella quale il limite supposto è oggettivamente reale e poi altre nelle quali il limite è solo il frutto di “congetture” personali.

E’ necessariamente (in ogni caso e contesto) e universalmente (per chiunque) vero che per esercitare, legalmente, come dentista in Italia si debba avere una laurea? Sì lo è. Limite oggettivo, problema reale, per chi volesse fare il dentista senza avere una laurea.

Immaginiamo invece una banale situazione di questo tipo: abbiamo appena chiamato un’amica per chiedere un consiglio, venendo liquidati velocemente senza spiegazioni. Non solo ci siamo rimasti male, ma abbiamo iniziato a “farci del male” con considerazioni polemiche nei confronti dell’amica – del tipo: “Io non mi comporterei mai così con lei, senza neanche una spiegazione” – o con pensieri autolesionisti, come: “E’ arrabbiata con me per qualche motivo”, o peggio ancora giudizi generici del tipo: “Quando hai bisogno di qualcuno spariscono tutti”.

Come potremmo intervenire per “illuminare” una percezione così, univoca, vittimistica e autolesionista?

Le domande da farsi, secondo i paradigmi di necessità e universalità, potrebbero essere moltissime. Facciamo alcuni esempi, immaginando un dialogo che verosimilmente potrebbe aver luogo tra un esperto e un “paziente”, ma che evidentemente potremmo anche avere con noi stessi.

D:“E’ necessariamente vero che un’amica, per essere tale, debba essere a disposizione sempre e comunque?

R: “No in effetti no, però poteva almeno spiegarmi perché non poteva”.

D: “E’ necessariamente vero che una persona possa sempre dare spiegazioni al telefono?

R : No, probabilmente no

Qui si rende necessario uno “sforzo creativo” per immaginare delle alternative

D : In quali situazioni per esempio, anche una persona cara, potrebbe essere sbrigativa al telefono, senza dare spiegazioni?

R: “Ma non saprei, potrebbe avere davanti una persona a cui non  vuole far sapere i fatti propri, o magari potrebbe essere turbata per qualcosa che le è appena successo”. 

E così via. Cosa abbiamo fatto in questa ipotesi di dialogo tra due persone o con se stessi? Non abbiamo fatto altro che minare le certezze che portavano ad una sola ed unica possibile interpretazione di quanto accaduto. Abbiamo poi messo in evidenza che le fantasie vittimistiche attribuite a quella situazione, fino a prova contraria, erano del tutto soggettive. Abbiamo infine reso evidente un concetto fondamentale: che è perlomeno “pretenzioso” pensare di essere necessariamente la causa dei comportamenti (anche spiacevoli) degli altri. Gli altri possono avere delle loro ragioni che non hanno nulla a che fare con noi. 

Insomma, quanti limiti, ritenuti oggettivi, sono solo il frutto di percezioni distorte? Quanti giudizi affrettati sono solo il risultato di nostre interpretazioni arbitrarie? Ognuno può mettere a confronto le proprie convinzioni e inoltrarsi in un utile processo di “disvelamento”.

E’ necessariamente vero che sono negato/a per quel lavoro, sport o prestazione, solo perché  il primo approccio non è stato dei migliori?

E’ necessariamente vero che il mio partner non mi ama perché non “intuisce” i miei bisogni?

E’ necessariamente vero che non potrò mai fare il cantante professionista perché non ho “amicizie” in quel settore?

Domande fondamentali, per scoprire che, nella stragrande maggioranza dei casi, siamo noi a esserci posti dei limiti o ad aver interpretato in modo problematico dei fatti che di per sé non significavano nulla di preciso e definitivo.

Per concludere è doveroso dire che comunque il farsi delle domande, può essere utile per superare ostacoli “immaginati”,  ma non per produrre “miracoli” dal nulla. Potremmo in effetti scoprire che certi obbiettivi,  pur non essendoci preclusi a priori, richiedono comunque un serio percorso di studio o di apprendistato. Ma comunque avremmo già in parte superato il problema , passando da un problema di identità a un problema di competenze. Insomma niente congiure contro di noi, solo il bisogno di imparare e fare, umilmente, esperienza.

 

 

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16 mercoledì Gen 2013

Per vivere meglio (e dimagrire un po’), mangiare con consapevolezza. I consigli dello psicologo

abbuffataNon vuole essere il nuovo metodo di contrasto alla dilagante obesità, l'”epidemia del terzo millennio”, e non pretende di essere considerato il “regime alimentare della nuova era”. È, invece, un saggio che dà la ricetta per imparare a mangiare in maniera «consapevole», senza perdere la spensieratezza e il piacere che dovrebbero sempre accompagnare il momento dei pasti, mettendo insieme consigli e accortezze che aiutino a eliminare le vecchie abitudini che, senza che ce ne accorgiamo, ci portano a ingurgitare cibi, magari anche molto calorici, e di cui magari non abbiamo neanche voglia. Con la possibilità, come «effetto collaterale», di perdere anche qualche chilo. È questo, in poche righe, il contenuto del libro «Mangiare inconsapevole. Sai cosa c’è nel tuo piatto» (editricepisani) di Brian Wansink, psicologo dell’alimentazione docente alla Stanford University (Usa) e direttore del Food and Brand Lab alla Cornell University (Usa) che di sé dice: «Non sono un salutista e adoro le patatine fritte!».

Diversi gli argomenti correlati al cibo trattati nel libro: si va dal cercare di capire se la dimensione del piatto può alterare il senso di sazietà, fino ad arrivare a comprendere se i cibi di marca sono davvero i più buoni, passando dal perché la musica o il colore della stanza influenzino l’appetito e qual è la vera ragione per cui la maggior parte delle diete è destinata al fallimento. Il libro mostra come l’inconsapevolezza sia da considerare una delle principali cause delle nostre cattive abitudini alimentari: con esempi e aneddoti divertenti lo psicologo dell’alimentazione ci rivela, infatti, come spesso ignoriamo non solo la quantità e la qualità del cibo che ingeriamo, ma anche il motivo che ci spinge a farlo.
«La quantità di cibo che ognuno di noi assume quotidianamente dipende in gran parte dall’ambiente circostante.Mangiamo troppo non per fame, ma perché influenzati dalla famiglia e dagli amici, dalla grandezza delle confezioni e dei piatti, suggestionati da nomi e numeri, etichette e luci, colori e candele, forme e odori, fuorviati da diversivi e distanze, dispense e contenitori – scrive Wansink -. Questa lista è tanto infinita quanto invisibile. Invisibile? La maggior parte di noi è beatamente inconsapevole dei fattori che incidono su quanto mangiamo. Questo libro è il frutto di decine di studi a cui hanno partecipato migliaia di persone, che, come la maggior parte di noi, credono che il loro modo di alimentarsi sia determinato principalmente da quanto siano affamate, da quanto apprezzino il cibo e dall’umore. Noi tutti pensiamo di essere troppo intelligenti per essere tratti in inganno dalla grandezza delle confezioni o dei piatti, e dal tipo di illuminazione. Siamo disposti a riconoscere che altri possano essere raggirati, ma non noi. Ecco cosa rende questo “mangiare inconsapevole” così pericoloso».

Tra le ultime pagine del libro trova anche spazio una disamina delle differenti tipologie di diete andate molto di moda negli ultimi anni, con tanto di «pro» e di «contro» per ciascuna. Una sorta di «bussola» per orientarsi meglio tra i vari regimi dietetici e capirne le caratteristiche.

di m.c. (27/12/2012 – fonte “Salute 24”)

15 martedì Gen 2013

soprattutto se «diet», aumentano rischio-depressione

bibite_e_depressioneBere troppe bibite dolcificate, soprattutto se nella versione “diet”, può aumentare il rischio di depressione in età adulta. A sostenerlo è Honglei Chen, autore di una ricerca che sarà presentata al convegno annuale dell’American Academy of Neurology di San Diego, in programma per il prossimo marzo. Buone notizie, invece, per gli amanti del caffè: al contrario di quelle con le bollicine, questa bevanda diminuisce la probabilità di avere a che fare con questo disturbo.

Per arrivare a queste conclusioni Chen e colleghi hanno analizzato i dati sul consumo di bibite gassate, tè, punch alla frutta, caffè e altre bevande relativi a 263.925 individui che all’inizio dello studio avevano un’età compresa tra 50 e 71 anni. Circa 10 anni dopo i ricercatori hanno valutato quali partecipanti avessero ricevuto una diagnosi di depressione. E’ stato, così, scoperto che bere più di 4 bibite gassate o punch alla frutta al giorno aumenta la probabilità di sviluppare la depressione, rispettivamente, del 30% e del 38% rispetto al rischio corso da chi non assume queste bevande. In particolare, il rischio è maggiore per chi sceglie le bibite nella loro versione dietetica. Viceversa, prendere 4 caffè al giorno riduce questa probabilità del 10%.

“La nostra ricerca – ha spiegato Chen – suggerisce che eliminare o ridurre le bibite dolcificate diet o sostituirle con caffè non dolcificato potrebbe aiutare a ridurre il rischio di depressione in modo naturale”. Tuttavia, il ricercatore ammette che sono necessarie altre ricerche per confermare questa ipotesi. “Le persone che soffrono di depressione – ha concluso l’esperto – dovrebbero continuare ad assumere i farmaci prescritti dai loro medici”.

di Silvia Soligon (10/01/2013 – fonte “Salute 24”)