Archivio della categoria: Amici Animali
02 mercoledì Dic 2015
Dopo il recente allarme dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sull’effetto cancerogeno del consumo di carni rosse (bovine, suine, ovine e caprine), forniamo dati sulla zootecnia, sui consumi di carne per Paese e area geografica e sui danni ambientali e sociali (fame nel mondo) provocati dall’allevamento.
IMPATTO AMBIENTALE DEL CONSUMO DI CARNE
Acqua necessaria per produrre 1 kg di carne: manzo 15.500 litri; maiale 4.900 litri; pollo 4.000 litri. Il 70% dell’acqua dolce è consumata per zootecnia e agricoltura.
L’allevamento produce il 14,5% del gas serra: un bovino, attraverso le scoregge, libera nell’atmosfera circa 500 litri di gas metano l’anno.
Per produrre un 1 kg di carne servono da 8 a 12 kg di cereali: basterebbero a eliminare i problemi di fame e malnutrizione che affliggono il 20% dell’umanità. Due terzi del raccolto di cereali è destinato alla zootecnia, un terzo alla nutrizione dell’uomo. La quantità di cerali usati solo negli Stati Uniti per l’allevamento sarebbero sufficienti a sfamare 800 milioni di persone. E due terzi dei cereali esportati dagli Usa sono destinati all’alimentazione animale. La zootecnia è la prima causa di disboscamento delle foreste pluviali: 88% in Amazzonia. Da un ettaro si ricavano 25.000 kg di patate o 157 kg di carne. Nel mondo ci sono 4 milioni di ettari coltivati a vegetali (frutta, verdura, cereali) e 23 milioni di ettari coltivati a foraggio per l’allevamento. L’industria alimentare macella ogni anno 65 miliardi di animali.
CONSUMO ANNUO PRO CAPITE DI CARNE PER PAESE
ITALIA: 80 kg
FRANCIA: 89 kg
STATI UNITI: 125 kg
OCSE (Paesi sviluppati): 81 kg
PAESI IN VIA DI SVILUPPO: 17 kg
AFRICA: 12 kg
ASIA MERIDIONALE O ORIENTALE: 40 kg
MEDIO ORIENTE: 20 kg
AMERICA LATINA: 54 kg
MEDIA MONDIALE: 36 kg
– See more at: http://www.ecoreport.org/it/00012/198/la-carne-dei-ricchi-affama-i-poveri.html#sthash.kSblkkbC.dpuf
05 giovedì Nov 2015
Nuova nascita al bioparco ZOOM di Torino! Pochi giorni fa è nato un cucciolo di siamango, la specie più grande tra tutti i gibboni ed originaria del Sud-est asiatico.
E’ nato infatti pochi giorni fa un cucciolo di siamango (Symphalangus syndactylus), la specie più grande tra tutti i gibboni, originaria del Sud-est asiatico. Il piccolo, che alla nascita pesa circa 500-600 gr, è il primo nato della coppia di siamanghi arrivati a ZOOM Torino nel 2011 grazie al programma d’interscambio tra bioparchi appartenenti all’EAZA (associazione che riunisce tutte le più prestigiose strutture zoologiche europee). E’ il settimo siamango che quest’anno nasce in un giardino zoologico EAZA* secondo i dati dell’EEP coordinator della specie.
Il cucciolo non ha ancora un nome perché per il momento non è possibile determinarne il sesso, la mamma, infatti, lo tiene stretto e al riparo da occhi indiscreti!
Il papà, Kiang, è un giovane maschio di 8 anni e arriva dal parco Besancon (Francia), mentre la mamma, Queenia, ha 7 anni ed è arrivata dal parco di Dortmund (Germania).
La coppia, che vive nell’habitat Sumatra, in un’isola interamente a loro dedicata, ha una storia molto particolare ma nello stesso tempo romantica: Queenia, infatti, all’inizio, essendo molto giovane, aveva un po’ paura di Kiang, un maschio molto esuberante e “insistente”, ma dopo le prime settimane ha ceduto al corteggiamento e da allora sono diventati inseparabili. Questo comportamento è naturale anche in natura, infatti i gibboni formano coppie monogame, ma è particolare vedere una forma così forte di affetto in cui il maschio dedica mille attenzioni alla femmina. Qualche tempo fa, ad esempio, Queenia è stata operata a causa di un banale incidente, ed è dovuta quindi restare separata da Kiang per qualche ora. Per tutto il tempo Kiang era agitato e molto triste, al ritorno di Queenia l’ha abbracciata a lungo e da allora, guai a separarlo da lei!
Ora, a soli due anni dal loro primo incontro, ed avendo entrambi raggiunto la maturità sessuale (intorno ai 6 anni), hanno avuto finalmente, per la gioia di tutti i keeper del bioparco, il loro primo cucciolo.
Ma la gioia è soprattutto loro! E’ emozionante infatti vedere come Queenia dedichi mille attenzioni al piccolo e Kiang la aiuti. Non appena è nato il cucciolo, ha iniziato a vocalizzare per due ore consecutive “per comunicare a tutti che è diventato papà”!
“Siamo davvero molto contenti del lieto evento – afferma Valentina, biologa del parco – soprattutto perché i gibboni partoriscono ogni 2/3 anni, dopo 7-8 mesi di gestazione, dando alla luce un solo piccolo alla volta. Vogliamo quindi goderci il nuovo arrivato al massimo e riservare a lui tutte le attenzioni che merita!”
“La nascita di un cucciolo è sempre un evento molto commovente per tutto lo staff – commenta Daniel Sanchez, Responsabile Dipartimento Zoologico ZOOM Torino – La riproduzione è indice di benessere dell’animale e in questo caso, inoltre, rappresenta un successo perché testimonia come la coppia sia compatta ed in armonia e come, non appena raggiunta la maturità sessuale, abbia subito dato alla luce un cucciolo sano e vivace”.
I siamanghi sono segnalati come “in pericolo” dalla lista rossa della IUCN (International Union for Conservation of Nature). La loro sopravvivenza è legata infatti al mantenimento dell’habitat nel quale vivono e all’eliminazione del problema del bracconaggio.
Zoom Torino
Strada Piscina, 36
10040 Cumiana (TO)
Tel. 011 9070419
fax 011 9070763
info@zoomtorino.it
Fonte: www.guidabimbi.com
05 lunedì Ott 2015
È un animale affascinante il lupo e lungo questo trekking è possibile (anche se non facile) avvistare gli esemplari che hanno ripopolato due parchi meravigliosi: quello delle Alpi Marittime e del Mercantour.
Il lupo (Canis lupus italicus) era scomparso dall’arco alpino all’inizio del Novecento.
Alla fine degli anni‘80 invece, alcuni esemplari provenienti dall’Appennino abruzzese hanno iniziato a spostarsi dal centro Italia verso nord, favoriti dall’abbondanza e dalla varietà di prede disponibili e dall’aumento delle superfici boschive. Così, nel 1992, dopo molti anni dalla loro scomparsa, i primi due lupi sono stati ufficialmente osservati e riconosciuti nelle Alpi Marittime francesi.
Da quel momento in poi il lupo ha ripreso a vivere nelle vallate alpine sudoccidentali. Non è stato quindi reintrodotto dall’uomo, ma si è trattato diuna colonizzazione spontanea dovuta al fatto che si sono ricreate le condizioni ambientali adatte per il ritorno naturale di questo grande predatore. Oggi sappiamo che nell’area delle Alpi Marittime franco-italiane vivono stabilmente 20-25 lupi, suddivisi in piccoli branchi.
Il lupo avverte la presenza dell’uomo a grande distanza, si muove principalmente di notte e si sposta tantissimo, anche di decine di chilometri in una sola notte. Non è semplice quindi per un escursionista avvistarlo, ma si possono facilmente trovarne tracce sul terreno, specie d’inverno, sulla neve: le orme sono molto simili a quelle di un grosso cane e gli escrementi risultano pieni di peli e frammenti ossei.
Per chi ama questo animale e vuole provare a scorgerlo nel suo habitat naturale, esiste un trekking davvero suggestivo che attraversa due parchi molto vasti: il Parco Naturale delle Alpi Marittime in Piemonte e il Parco del Mercantour in Francia. È un percorso ad anello che tocca ecosistemi intatti. Alla partenza e all’arrivo è possibile visitare due centri faunistici specializzati nell’illustrare la vita, il comportamento e la storia del lupo. Il primo è il Centro faunistico di Entracque “Uomini e Lupi”, il secondo in territorio francese è il Centro faunistico “Alpa Loup” a Le Boreon.
Il trekking è molto lungo, si tratta di 75 km, di solito viene suddiviso in 10 tappe, comprende il passaggio su 5 spettacolari colli a 2400 m di quota toccando le caratteristiche Strade di Caccia Reali costruite per il re Vittorio Emanuele II. La partenza è da S.Giacomo di Entracque nel Parco della Alpi Marittime. Esiste anche una guida, molto ben fatta, che descrive con precisione tutte le tappe che possono anche essere percorsi da famiglie con bambini.
articolo scritto da Simona Denise Deiana per www.lifegate.it
18 venerdì Set 2015
Sta facendo rapidamente il giro del mondo, trasformandosi in un simbolo che dimostra la realtà (di cui c’è ancora chi stenta a credere) e l’urgenza dell’emergenza rappresentata dal global warming. La foto l’avrete vista tutti: si tratta di una femmina di orso polare emaciata, letteralmente pelle ed ossa, bagnata, infreddolita, e abbarbicata su quel rimane della banchina polare, divorata dal riscaldamento globale. L’autrice dello scatto, pubblicato lo scorso 20 agosto, è la fotografa Kerstin Langenberger, che spiega di aver catturato l’immagine nelle Svalbard, un arcipelago norvegese nel Mar Glaciale Artico, e di averla poi condivisa sul suo blog per testimoniare la triste situazione degli orsi polari, letteralmente affamati dallo scioglimento dei ghiacci.
Normalmente gli esperti considerano le Svalbard una zona relativamente tranquilla per questi animali, dove la loro popolazione è stabile se non addirittura in lento aumento. La situazione che si trova visitando l’arcipelago, racconta però la fotografa, sarebbe un’altra: ghiacci che ritirano a colpo d’occhio, e femmine affamate, ferite, con cuccioli che spesso non sopravvivono ai primi due anni di vita.
Se i maschi infatti trascorrono tutto l’anno sulla banchina polare, dove possono nutrirsi delle loro prede naturali, le foche, rimanendo così in perfetta salute, le femmine hanno spesso un altro destino. Recandosi sulla terra ferma per dare alla luce i cuccioli, spesso resterebbero bloccate a riva dal brusco ritirarsi del ghiacci nel periodo estivo, in un ambiente per loro estraneo, dove sono facilmente vittima della scarsità di cibo e di incidenti.
Per questo Langenberger ha deciso di postare la foto, che secondo la reporter rappresenta un monito dell’urgenza e della gravità della situazione, e delle conseguenze inevitabili che avrà lo scioglimento dei ghiacci dovuto al riscaldamento globale. Un messaggio importante, che non perderebbe la sua potenza anche se, come sottolineano alcuni esperti, la foto mostrasse in realtà qualcos’altro.
“Penso che esisteranno sempre, in qualunque popolazione di animali, esemplari in cattive condizioni”, ha raccontato su Live Science Karyn Rode, biologa del U.S. Geological Survey di Anchorage, per spiegare perché ritiene la spiegazione di Langenberger fuorviante. “Può capitare a causa di una ferita, o perché l’esemplare è molto vecchio, e ha perso alcuni dei suoi canini”.
Gli orsi polari infatti sono grandi predatori privi di nemici naturali, e per questo nella maggioranza dei casi quando muoiono è per l’incapacità di procurarsi il cibo. I dati disponibili sulle 19 popolazioni di orsi polari del pianeta parlano in effetti di 3 in declino, 1 in aumento, 6 stabili (tra cui quella delle Svalbard), e 9 per cui mancano dati sufficienti.
Ciò non vuol dire però che la specie sia fuori pericolo. I dati di riferimento risalgono infatti agli anni ’70, un periodo in cui gli orsi polari erano stati portati sull’orlo dell’estinzione dalla caccia eccessiva. Nei decenni seguenti, con la messa al bando internazionale della caccia di questi animali, il numero di esemplari è quindi aumentato notevolmente in tutto il pianeta. Questo però non vuol dire che oggi se la stiano passando bene. La scomparsa dei ghiacci, che continuerà ad intensificarsi nei prossimi decenni a causa del crescente effetto del global warming, determinerà infatti una riduzione sempre più drastica del loro habitat, e secondo gli esperti questo avrà gravi conseguenze per tutte le popolazioni di orsi polari.
La spiegazione di Kerstin Langenberger quindi potrebbe forse essere fuorviante, ma questo non diminuisce l’importanza del messaggio che veicola.
articolo scritto da Simone Valesini per Galileo – giornale di scienza
14 lunedì Set 2015
Sono il simbolo del riscaldamento globale, minacciati di estinzione dallo scioglimento delle calotte polari. Gli orsi polari, però, potrebbero sopravvivere anche senza le loro prede preferite: lefoche. Lo suggerisce uno studio dei ricercatori del Museo Americano di Storia Naturale, pubblicato su Plos One. Secondo i nuovi calcoli, i candidi plantigradi potrebbero salvarsi cacciando caribù e oche delle nevi sulla terraferma.
Gli orsi polari, Ursus maritimus, sono abituati a non alimentarsi per giorni nel periodo estivo, ma con le dovute limitazioni. Con l’innalzamento delle temperature, infatti, il ghiaccio manca per periodi sempre più lunghi e il grasso accumulato nel periodo primaverile, cibandosi di cuccioli di foca e carcasse di trichechi e di cetacei, non basta più. Ma fortunatamente (per loro) il cibo sulla terraferma c’è, e secondo le osservazioni condotte in Canada da Linda Gormezano e Robert Rockwell del Museo Americano di Storia Naturale, sembra anche che gli orsi inizino a sfruttarlo.
“Gli orsi polari sono molto opportunisti, tanto che è ormai ampiamente documentato il loro consumo di diversi tipi di cibo sulla terraferma” ha dichiarato Rockwell, che ha studiato l’ecologia artica della baia di Hudson occidentale per quasi 50 anni. “L’analisi degli escrementi e le osservazioni dirette ci hanno mostrato che orsi polari subadulti, gruppi familiari e anche alcuni maschi adulti stanno già mangiando piante e altri animali, durante il periodo in cui il ghiaccio è più sottile e non consente loro di cacciare le foche“. Infatti sulla costa occidentale della baia di Hudson, nella provincia di Manitoba, gli studiosi hanno osservato questi mammiferi cacciare anche i caribù.
Gomezano e Rockwell hanno così calcolato il bilancio energetico tra i costi della caccia e l’apporto calorico di prede come il caribù, ma anche di oche delle nevi e delle loro uova. E hanno scoperto che probabilmente le risorse della terraferma sono più che sufficienti per sopperire al bisogno energetico degli orsi polari. Un orso, quindi, dovrebbe mangiare in media un caribù ogni 27 giorni per scongiurare la fame: una frequenza più o meno simile ai ritmi con cui caccia le foche. Inoltre, dal momento che in primavera gli orsi polari giungono sulle coste sempre prima, potrebbero arrivare sulla terraferma proprio nella stagione in cui i caribù partoriscono e le oche delle nevi depongono le loro uova. Cuccioli e uova sarebbero quindi pasti sostanziosi e soprattutto facili da ottenere, senza un grosso dispendio energetico. “Queste specie potrebbero diventare una componente cruciale della dieta degli orsinella stagione estiva” ha specificato Rockwell, consentendo così la sopravvivenza della specie.
Finora gli studi precedenti, infatti, hanno dipinto una situazione catastrofica: dal 2068, gli orsi polari rimarranno bloccati sulla terraferma per circa 180 giorni l’anno, e la maggior parte dei maschi adulti (tra il 28% e il 48%) morirà di fame. Ma questi studi non tengono conto dell’assunzione di cibo sulla terraferma: un adattamento che potrebbe ridare speranza alla conservazione di questa specie. Se la nuova situazione funzionerà nel lungo periodo, però, dipende da diversi fattori, come il tasso di successo nella caccia, e se le oche e i caribù si adatteranno ai cambiamenti climatici e riusciranno a sopportare la pressione predatoria.
articolo scritto da Francesca Buoninconti
http://www.galileonet.it/2015/09/gli-orsi-polari-sopravviveranno-allo-scioglimento-dei-ghiacci/?utm_campaign=Newsatme&utm_content=Gli%2Borsi%2Bpolari%2Bsopravviveranno%2Ballo%2Bscioglimento%2Bdei%2Bghiacci&utm_medium=news%40me&utm_source=mail%2Balert
Credits immagine: AMNH/R. ROCKWELL
29 lunedì Giu 2015
Uno studio dell’UE afferma che il 9,2% delle api europee è a rischio estinzione. Mentre in Italia la produzione è calata del 50% in 7 anni. Vittime di pesticidi, inquinamento e cambiamenti climatici, questi meravigliosi insetti riusciranno difficilmente a sopravvivere, mettendo a serio rischio l’intera catena alimentare. Per evitare il disastro istituzioni e associazioni corrono ai ripari.
L’allarme sull’estinzione delle api è stato lanciato più volte nel corso degli ultimi anni. Noi dipendiamo anche da loro, visto che 71 delle 100 colture più importanti al mondo si riproducono grazie all’impollinazione. Ma per salvarle, bisogna prima contarle. E’ da poco operativa l’anagrafe delle api, che dà la possibilità agli apicoltori italiani di registrarsi sul portale del Sistema informativo veterinario accessibile dal portale del Ministero della Salute. Operatori delle Asl, aziende e allevatori potranno accedere all’anagrafe per registrare le attività, comunicare una nuova apertura, specificare la consistenza degli apiari e il numero di arnie o le movimentazioni per compravendite. Sul sitowww.vetinfo.sanita.it, una sezione pubblica dedicata all’Apicoltura consentirà di avviare la procedura online di richiesta account. D’altronde i numeri parlano chiaro: le api italiane sono diminuite del 40% dal 2008 ad oggi, con conseguente calo della produzione di miele del 50%; siamo quarti nella classifica dell’apicoltura europea; le importazioni sono aumentate del 17%, di contro le esportazioni sono diminuite del 26%. La situazione è preoccupante non solo in Italia, ma anche nel resto d’Europa: in Inghilterra si stima che le api scompariranno del tutto entro il 2020. Gli scienziati la chiamano “Sindrome dello Spopolamento degli Alveari”. E questo fenomeno è stato recentemente confermato da uno studio dell’Unione Europea, denominato “European Red List of Bees”, che censisce 1.965 specie di api del vecchio continente. Bene, il 9,2% è a rischio estinzione, una percentuale che sale a quasi un quarto (25,8%) nel caso dei “bombi”, impollinatori molto importanti della stessa famiglia; il 7,7% (150 specie) è in declino, il 12,6% (244 specie) è più o meno stabile e lo 0,7% (13 specie) è in aumento. Per circa il 56,7% delle specie purtroppo non ci sono dati, esperti e finanziamenti sufficienti, per capire i trend delle popolazioni. Fra questi anche quelli relativi all’ape da miele per eccellenza, la Apis Mellifera, per la quale occorrono nuove ricerche proprio per distinguere le popolazioni selvatiche da quelle “addomesticate”.
Ma quali sono le cause di questo disastro? Le prime due sono da ricercarsi ovviamente nell’uso dei pesticidi e nell’inquinamento. Poi seguono i cambiamenti climatici, la malnutrizione degli insetti e le infezioni, come nel caso dell’Aethina Tumida, il coleottero degli Alveari. Il Ministero della Salute ha già trasmesso una nota agli Assessorati alla Sanità e ai Servizi Veterinari di tutte le Regioni e Province Autonome italiane, ordinando di mettere in atto il Piano di Sorveglianza che il Ministero della Salute ha concordato con il Centro di referenza nazionale per le malattie delle api. Esso prevede controlli clinici condotti su apiari stanziali, da individuarsi in modalità “random”, e in controlli clinici condotti su apiari selezionati sulla base del rischio, adottando i seguenti criteri: a) apiari che hanno effettuato attività di nomadismo fuori Regione o Provincia autonoma; b) apiari che ricevono materiale biologico (api regine, pacchi d’ape, ecc.) da altre Regioni e Province autonome; c) apiari ritenuti a rischio in funzione di altri criteri territoriali o produttivi.
Accanto al contesto istituzionale, numerose sono le iniziative di associazioni ed enti, a cui noi de Il Cambiamento abbiamo dato spazio recentemente (leggi articoli in fondo). Oggi segnaliamo il progetto di Life Gate, “Bee my Future. Le api non fanno solo il miele. Il nostro futuro dipende anche da loro”, che si prefigge l’obiettivo di contribuire alla tutela delle api sostenendo un allevamento che parte da cinque alveari, dati in gestione ad un apicoltore, appositamente selezionato dall’Associazione APAM – Associazione Produttori Apistici della Provincia di Milano, con esperienza decennale e con una profonda conoscenza dell’apicoltura. Il progetto prevede l’acquisto degli sciami e delle attrezzature necessarie (arnie e indumenti di protezione), l’assistenza tecnica all’apicoltore, la verifica e il monitoraggio delle attività e del loro stato di salute.L’apicoltore si occuperà dell’allevamento delle api ricevute in gestione e della produzione di miele in un contesto urbano, all’interno della provincia di Milano. Si seguiranno i principi guida del biologico, che prevedono la disposizione degli apiari in zone con colture e vegetazioni spontanee, che non confinano con aree trattate con pesticidi e lontane almeno mezzo chilometro da zone soggette a smog, utilizzando solamente materiali naturali.
L’iniziativa Bee my Future è aperta però anche a tutti coloro che vorranno dare il proprio sostegno. In che modo sarà possibile aderire? Adottando mille api, in un anno, e contribuendo così alla loro tutela e conservazione. A tutti i sostenitori LifeGate manderà un attestato personalizzato e 5 kg di miele di acacia, millefiori o tiglio prodotto dalle api.
articolo scritto da Massimo Nardi per Il Cambiamento http://www.ilcambiamento.it/estinzione/api.html
06 mercoledì Mag 2015
Il 29 marzo 2014 è entrato in vigore il nuovo Decreto Legislativo n. 26/2014 sulla sperimentazione animale.
Anche se, purtroppo, non si tratta della fine della vivisezione, la nuova legge è frutto di una lunga battaglia per il recepimento della Direttiva europea 63/2010 che ci ha visto in prima linea per ottenere criteri maggiormente restrittivi rispetto al testo comunitario.
La Camera dei Deputati aveva approvato l’articolo 13 della Legge di delegazione europea che “restringeva” lasperimentazione animale e incentivava il ricorso ai metodi sostituivi di ricerca, ma il Governo, chiamato a legiferare su questo tema, ha cambiato le carte in tavola calpestando numerosi punti di tale articolo.
Nonostante la posizione presa dal Governo e la lobby vivisettoria che ha fatto di tutto per alimentare falsi stereotipi sull’utilità del modello animale, in Italia sono stati introdotti numerosi punti migliorativi rispetto alla Direttiva, infatti non sarà più possibile:
- allevare cani, gatti e primati da laboratorio e, quindi, il famigerato “Green Hill” non potrà riaprire la sua fabbrica di beagle, a prescindere dall’esito del prossimo processo
- effettuare esperimenti su scimmie antropomorfe (scimpanzè, oranghi, gorilla, gibboni, bonobo)
- effettuare esperimenti per la produzione e il controllo di materiale bellico
- effettuare esercitazioni su animali per la didattica, ad eccezione dei corsi universitari per la medicina veterinaria e il divieto si applica anche in scuole primarie e secondarie
- riutilizzare animali in esperimenti con livello di dolore grave a partire dal 1° gennaio 2017
- ignorare le sanzioni, ora più efficaci, per chi viola le norme minime della legge
- Inoltre, seppure solo dal 1° gennaio 2017 e previo riconoscimento di metodi alternativi, saranno vietati i test per droghe, alcool, tabacco e per trapianti di organi animali
- Confermati i divieti di test su cani e gatti randagi e su animali resi afoni, altrimenti utilizzabili secondo la direttiva europea
- saranno finalmente promossi e adottati metodi alternativi/sostitutivi alla vivisezione poiché vi sarà un Fondo per il loro sviluppo, pari al 50 per cento del fondo di rotazione dello Stato di cui all’articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183.
La battaglia di questi anni ha dimostrato che avere una legge nazionale maggiormente restrittiva rispetto al testo comunitario non solo era doveroso, ma possibile!
La nuova legge deve essere il punto di partenza e non di arrivo: continueremo a lottare per ottenere una ricerca nonviolenta e davvero utile, per salvare la vita di uomini e animali che a migliaia cadono ancora vittime di una falsa scienza.
Fonte: LAV
10 martedì Mar 2015
Tutti sappiamo che l’olfatto del cane è infinitamente più potente di quello umano, e in alcuni casi perfino migliore di quello delle più sofisticate apparecchiature scientifiche. La capacità olfattiva di Frankie, un incrocio fra un pastore tedesco e un segugio è straordinaria. Infatti, Frankie, annusando campioni di urina, ha dimostrato un’impressionante precisione nell’identificare pazienti affetti da tumore alla tiroide, nell’88% dei casi, ossia 30 su 34. A rivelarlo uno studio scientifico realizzato dalla University of Arkansas for Medical Sciences.
Gli studiosi si cimentano da decenni nello studio delle capacità percettive e sensoriali del cane; la materia non è affatto semplice, perché manca un metodo oggettivo: l’unico modo che abbiamo per studiare i sensi del cane è paragonarli con i nostri, e questo già di per sé rappresenta un handicap. I cani possiedono notoriamente un olfatto quasi infallibile, composto da un numero 10 volte superiore di recettori rispetto a quello umano. I dati mostrano che l’accuratezza diagnostica garantita dal quattrozampe è solo leggermente inferiore a quella della biopsia con agoaspirato, generalmente il primo esame che si esegue per testare per i noduli tiroidei. Il principale ricercatore, Donald Bodenner, osserva che le attuali tecniche diagnostiche per il tumore alla tiroide «spesso producono risultati incerti», portando a procedure mediche ricorrenti e interventi chirurgici non necessari. “I cani addestrati per rilevare il cancro potrebbero essere utilizzati per rilevare la presenza di neoplasie in una fase iniziale e per evitare l’intervento chirurgico quando ingiustificato”.
Non è ancora chiaro quali siano le molecole che, una volta entrate nel naso del cane, gli consentano di indicare i campioni positivi e quelli negativi. Ma studiarlo potrebbe consentire anche di mettere a punto “nasi elettronici” in grado di fare il loro stesso, utile lavoro. Emma Smith, del Cancer Research UK, mette comunque in guardia: “I dati sulla capacità dei cani di annusare il cancro sono ancora diversi fra loro, e non sarebbe pratico pensare di utilizzare gli animali su larga scala per diagnosticare tumori. Ma andare avanti con i test potrebbe darci una mano per mettere a punto strumenti nuovi» come i nasi elettronici.
Ecco alcune informazioni utili e curiose:
Se le membrane che tappezzano la mucosa del naso del cane fossero distese su un piano, la loro superficie totale sarebbe di gran lunga superiore alla superficie totale dell’intero corpo del cane.
Il cane ha circa sette metri di membrana nasale. Noi ne abbiamo mezzo metro e abbiamo dimensioni corporee maggiori.
Nel cervello del cane, la zona responsabile del senso dell’olfatto ha mediamente un numero di cellule nervose 40 volte superiore a quelle presenti nella stessa zona del cervello umano.
Il cane ha una capacità olfattiva così acuta che puo`individuare e identificare odori talmente impercettibili che neppure le apparecchiature scientifiche più sensibili riescono a misurare.
L’olfatto è indubbiamente il più importante dei sensi “pratici” del cane ma anche il più difficile da comprendere da parte nostra.
13 venerdì Feb 2015
La cantante e l’attrice testimonial senza veli per ‘Peta’ e ‘Fishlove’
Sensibile ai diritti degli animali anche l’attrice, che confessa di essere “una grande sostenitrice della protezione dell’ambiente sottomarino. In realtà ha la fobia dei pesci. Quando Greta (Scacchi, la fotografa ndr.) mi ha chiesto di posare con un tonno di 27 chili ero preoccupata di toccarlo con la pelle nuda”.
Fonte: http://www.tgcom24.mediaset.it/spettacolo/p-nk-e-helena-bonham-carter-le-star-nude-in-difesa-degli-animali_2095213-201502a.shtml