Le importazioni di olio di palma in Italia hanno raggiunto un record storico nel 2014, registrando un aumento del 19 per cento rispetto all’anno precedente: 1,7 miliardi di chilogrammi. Un’invasione incomprensibile secondo Coldiretti (Confederazione nazionale dei coltivatori diretti) visto che il nostro Paese è la patria dell’olio extravergine di oliva e della dieta mediterranea.
Al di là del made in Italy, i dubbi dei consumatori legati alla diffusione dell’olio di palma sono sia di natura ambientale che nutrizionale. L’aumento esponenziale delle piantagioni sta alimentando la deforestazione in molte aree tropicali della Terra e gli studi scientifici sulle caratteristiche nutrizionali di questo olio vegetale sono contradditori. Proviamo a fare un po’ di chiarezza.
COSA C’ENTRA L’OLIO DI PALMA CON LE FORESTE
È l’olio vegetale più usato al mondo. L’aumento del suo utilizzo nel settore alimentare ha causato molti problemi ambientali. Negli ultimi anni, infatti, il numero (e quindi l’estensione) delle piantagioni è cresciuto in modo esponenziale, a tutto danno delle foreste tropicali.Questo fenomeno si è sviluppato soprattutto in Indonesia e Malesia che, insieme, esportano circa il 90 per cento di tutto l’olio di palma presente sul mercato globale. Per cercare di arginare o quantomeno affrontare il problema, nel 2004 alcune aziende produttrici insieme a ong ambientaliste si sono sedute intorno alla Tavola rotonda per l’olio di palma sostenibile (Roundtable on sustainable palm oil, Rspo) per cercare di dar vita a uno standard ambientale minimo per la coltivazione della palma e porre un freno alla deforestazione e alla perdita di biodiversità.
I lavori hanno portato alla stesura di otto principi da seguire e all’importazione in Europa del primo olio di palma certificato nel 2008, mentre nel 2012 circa il 14 per cento di tutto l’olio prodotto (oltre 54 milioni di tonnellate) portava il logo Rspo. Non tutti sono rimasti soddisfatti dai risultati della tavola rotonda, come sottolineato dal Wwf e da altre ong. Ci sono molti punti che devono essere migliorati, come quello sui pesticidi. Diserbanti e altre sostanze chimiche pericolose, infatti, continuano a essere utilizzati nelle piantagioni e non vige alcun controllo sulle emissioni di CO2 in atmosfera.
Per continuare a innovare e migliorare la certificazione Rspo e includere parametri che rendano le piantagioni e l’olio di palma davvero sostenibili, Wwf, Greenpeace, Rainforest Action Network e altre organizzazioni hanno dato vita al Palm oil innovation group (Poig), un gruppo di pressione con l’obiettivo di spingere governi e imprenditori a migliorare le leggi in vigore e le condizioni di lavoro e di sfruttamento delle risorse naturali. Perché l’unico, vero scopo è difendere i polmoni del pianeta: le foreste tropicali. Il consiglio più valido per i consumatori, dunque, è quello di cercare in etichetta i loghi e la certificazione Rspo che attestino la provenienza da gestione quantomeno responsabile dell’olio di palma contenuto nel prodotto.
L’OLIO DI PALMA DAL PUNTO DI VISTA NUTRIZIONALE
Da più parti vengono mosse critiche a questo ingrediente, accusato di essere largamente utilizzato dall’industria nonostante presenti un tenore di grassi saturi superiore a quello di molti altri oli. Ma l’olio di palma è dannoso per la salute? Per prima cosa va precisato che i grassi saturi sono ritenuti responsabili dell’insorgenza di malattie cardiovascolari, ma non sono tutti uguali. Si distinguono in saturi a catena corta (protettivi), media (neutri) e lunga (dannosi). Sono proprio questi ultimi ad aumentare il rischio di sviluppare ipertensione arteriosa, arteriosclerosi e colesterolemia. L’olio di palma, in effetti, contiene abbondante acido palmitico saturo a catena lunga, ma questa quota di grassi dannosi è affiancata da ben il 51,5 per cento di acidi grassi insaturi protettivi, cioè da circa il 39 per cento di monoinsaturi (acido oleico, tipico dell’olio di oliva) e dal 12 per cento di polinsaturi, soprattutto linoleico. Per fare un paragone, si pensi che il burro contiene solo il 21,6 per cento di acido palmitico e possiede gli acidi laurico e miristico, saturi a catena media, quindi neutri rispetto al rischio vascolare; più l’acido butirrico, a catena corta, che pur essendo saturo rientra tra i grassi protettivi. Ma è anche vero che il burro ha solo la metà (26,5 per cento) degli acidi grassi protettivi monoinsaturi dell’olio di palma (fonte Nico Valerio). L’olio di palma dunque, anche se contiene abbondante acido palmitico, grazie alla sua composizione complessiva, e quando non è idrogenato, non aumenterebbe il colesterolo totale. L’idrogenazione è quel processo in base al quale l’olio assume una consistenza solida e diventa più ricco di grassi saturi; l’olio di palma ha per sua natura una consistenza semisolida che ha l’effetto di rendere naturalmente cremosi i prodotti, per cui spesso non viene idrogenato. Allo stato naturale, grezzo, è inoltre ricco di vitamine, carotenoidi e polifenoli antiossidanti. I più recenti dati nutrizionali relativi a questo ingrediente rivelano che in cottura si comporta meglio dell’olio di semi e del burro perché è un grasso stabile alle alte temperature, anche alla frittura, e all’ossidazione. E allora perché il Consiglio superiore della sanità del Belgio raccomanda di limitarne l’impiego e l’assunzione per via dell’alto contenuto di acidi grassi saturi? Perché gli studi scientifici e nutrizionali sull’olio di palma sono controversi, danno risultati contradditori e non sono paragonabili tra loro in quanto non sempre riportano con precisione qual è la forma in cui è stato analizzato: se integrale, raffinato o frazionato. La sua migliore prestazione nutrizionale, infatti, l’olio di palma la dà quando è integrale, perché da grezzo è ricco di beta-carotene, di alfa-carotene e di vitamina E alfa-tocoferolo. Il prodotto raffinato, il più utilizzato dall’industria alimentare, offre molto poche delle proprietà dell’olio grezzo. Altra problematica legata all’olio di palma è quella legata alla contaminazione da residui di sostanze chimiche tossiche. L’olio di palma viene coltivato in Paesi che consentono ancora l’impiego di sostanze che in Italia e in Europa sono vietate, come ad esempio il ddt. Dai controlli effettuali finora non sono mai stati riscontrati livelli di residui superiori a quelli consentiti per legge, ma è possibile che i bambini possano essere più esposti degli adulti al cosiddetto “effetto accumulo” da pesticidi.